Giuseppe Grosso

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L'IMMAGINARIO PITTORICO DI GIUSEPPE GROSSO

Floriano De Santi

I. Il neoespressionismo del periodo giovanile.

Fin dai suoi esordi, sullo scorcio degli anni Cinquanta, la pittura di Giuseppe Grosso è immersa in un lungo sogno lucido e cosciente, che sul piano linguistico - ha puntualizzato Mario De Micheli - «vuol dire essenzialità, evidenza, chiarezza di visione»'. Essa è intonata a un monologo segreto, trascorsa dai lampi mobili di un'apparizione interiore. Riconoscere questa Wahrheit semplice avrebbe evitato inutili discussioni sul valore sociale, sul realismo delle sue tele; le quali riflettono, invece, una meditazione soggettiva tutta moderna, e se ricorrono all'impatto figurale lo assestano, quasi d'istinto, nell'imponente mitologia formale plasmata dal nostro secolo.

Ammetto che è più facile, oggi, veder chiaro in questo problema; oggi che lo stesso Grosso ce ne ha fornito la chiave nella produzione degli ultimi vent'anni; oggi che il crollo del «dogma avanguardista»2 ci consente di ripensare alla Kermesse tra forma e figurazione con il distacco più sovrano. Così, rilette adesso, le pagine impassibili di Paolo Fossati sembrano ermeneuticamente insufficienti' - pur così ricche di umori solidali, di intuizioni - a contenere una vicenda sottile, complessa, contraddittoria e meno vincolata a una traccia che allora, nei primi anni Sessanta, sembrava lo spartiacque fra due mondi: il reale (ma che valore assegnare, poi, a questa parola?), da un lato, e il dilagare della nuova stagione informale dall'altro. Ma procediamo con ordine.

Quando nel 1952 Grosso dipinge Testa virile ha già fatto la sua scelta: costretto a ridimensionare i suoi entusiasmi neoromantici, il sacro furore dei vent'anni a petto di un'esperienza non meno fruttuosa trascorsa sotto la guida di Cesare Maggi, egli comincia a fare i conti con se stesso e muove i primi passi sulla strada che poco alla volta si sarebbe rivelata la sua più vera: quella di un perenne viaggio fra il peso della memoria e l'avventura del nulla, di una realtà «altra», della nietzschiana «dissoluzione della totalità». I lavori grafici e pittorici, datati fra il '50 e il '57, se testimoniano in termini di «scrittura» del debito contratto da Grosso nei confronti dell'espressionismo e dei fauves, sono importanti proprio perché segnano il momento di passaggio dalla fase dell'apprendistato, dominata da molte e un po' caotiche ricerche, a quella della rimeditazione e della trascrizione figurativa della propria privata biografia: l'infanzia dolorosa, le letture disordinate, le prime conoscenze e amicizie che contano.

Nel quadro succitato c'è tutto questo: in quel piccolo olio è da rintracciare l'atto di nascita di Grosso come pittore. Di lì sarà necessario anche da parte nostra partire nella ricognizione dell'intero corpus delle opere dell'artista torinese che a quelle origini si è mantenuto costantemente fedele sì da rifiutare la distinzione, operata da una critica sempre pronta a classificare e a schematizzare, fra un Grosso prima maniera, lirico e memorialistico, e un Grosso successivamente aperto a istanze ideologiche e sociali. Poiché il suo percorso, seguendo come pochi altri artisti della sua generazione una necessità vitale che procede per accumuli di energia creativa, ha una invidiabile coerenza, è una distinzione che non ci trova affatto d'accordo.
Grosso non cede mai alla tentazione di appropriarsi all'esterno del déjà vu, del già conquistato. Giunto alla soglia dei trent'anni, sente che deve compiere il suo cammino per maturare uno stile; ...

 

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