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C
come Carena e come Cielo
L'opera d'arte cresce
sui paradossi, sulle ubiquità, sulle dimostrazioni per assurdo:
è il non-luogo (u-topia) per eccellenza, scena dell'apparizione
e dell'apparenza. Materia dell'irrappresentabile, ossessione dell'ineffabile.
Infatti Carena pensa da sempre alla specularità impossibile del
mondo nella pittura, e della pittura nel mondo, di qui la vena ironica
e ludica che attraversa tutta la sua produzione: dagli anni '50, contrassegnati
dalla concezione cinematografica del quadro come inquadratura e dell'immagine
come fotogramma, attraverso le "Radiografie di paesaggio"
dei primi anni '60 e le successive "Carrozzerie" - frammenti
oggettuali particolarmente intensi, anche drammatici, riflettenti ancora
porzioni di paesaggio, cieli -, fino alla ripresa dell'idea del fotogramma
speculare nelle "Pellicole" del '64 e alla svolta dei cieli
aerografati.
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Superfici celesti
di estensione reale o immaginaria virtualmente infinita - dalla dimensione
del quadro-finestra alle volte di palazzi storici come quelli del Castello
di Rivoli o del Ministero dei Beni Culturali di Parigi -, dove le nuvole
possono celare messaggi (nei primi anni '70), oppure dove la superficie
stessa rivela e smentisce la propria finzione spezzandosi, frantumandosi
(nella serie delle "Frantumazioni" e delle "Trance",
anni '80), scoprendo le quinte di una materia terrestre degradata o
modulandosi come un cielo "plastico" e ondulato di lamiera
e perspex (nelle "Pelli"). Superfici celesti ritagliate per
diventare cornici del vuoto (nella serie delle "Cornici")
o che sembrano ritirarsi dal telaio svelando che la presunta immaterialità
del cielo è sorretta da un'architettura (nella serie dei "Quadri").
Allo stesso modo anche l'impalpabilità, la vibrazione e la trasparenza
del cielo aerografato su marquisette (nelle "Arie") subiscono
lo scacco di un telaio che intrappola, inchioda l'evanescenza. Ancora,
nel 1991, superfici celesti come collages di schegge (nei "Rivestimenti"),
o come stratificazioni (nelle "Summe"), dove il cartone tagliato
o spezzato e sovrapposto allude metalinguisticamente alla serialità
"imperfetta" della pittura di cieli. E adesso, per Carena
il mondo si rovescia: il modulo celeste si combina in una pavimentazione
di estensione variabile; mediante l'illusionismo della pittura diventa
possibile camminare sul cielo e la vertigine che procura questa finzione
totalizzante e paradossale produce una riflessione definitiva d'ordine
estetico. Il naturalismo pittorico, cioè la riproduzione del
mondo sensibile, si dà solo in negativo, appunto come paradosso;
cosa c'è di più irriproducibile di un cielo? Il cielo
innanzitutto non esiste, nel senso che non ha materia e che il suo colore
è un effetto "pittorico" della luce e delle trasparenze
dell'atmosfera, non ha profondità o al contrario ne ha troppa,
le nuvole che in esso si coagulano sono creature barocche, come tali
costantemente metamorfiche e in movimento, eccetera.
Allora la pittura, che non può riflettere il cielo, lo pensa
in termini metaforici e quindi sposta l'accento dall'oggetto della riproduzione
all'atto stesso della riproduzione; partendo dalla coscienza, di matrice
romantica, che la pittura e il mondo sono irriducibili l'una all'altro,
insistere come fa Carena nella ripetizione del tema significa in realtà
insistere sulla differenza della pittura, ovvero sull'inesausta originalità
dell'evento artistico che scompagina, reinventa continuamente, portandolo
nell'oltre delle sue estreme conseguenze, lo scenario fisso del concreto.
II topos dell'opera è lo "spaesaggio" (spaesamento
del paesaggio), tanto più che l'uso dell'aerografo raffredda
la "pittura del paesaggio" nell'esplicita e distaccata simulazione
del "trompe 1'oeil", salvo poi ricuperare lo specifico pittorico
- la "pittoricità" - nelle frantumazioni e negli sfondamenti
materici delle superfici celesti.
Ecco dunque che la "serialità", sempre,autoironica
talvolta inquietante, di Carena dichiara con mente limpida - senza nube
alcuna - e con gesto puntuale e sapiente, che il vero oggetto della
pittura non è altro che la creazione pretestuosa di un oggetto,
perché, oltretutto, Carena ha sempre pensato la pittura in termini
oggettuali. E quale impresa più temeraria di trasformare il cielo
in un oggetto?
febbraio
'92
Andrea Balzola
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