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Il Mito del viaggio degli Argonauti
pagina 2/10
1986
Recensione di Giorgio Luzzi

Questa, per velocissimi tratti informativi, la vicenda: una fabula al solito complicatissima, di quelle, per intenderci, che gli antichi filosofi tendevano a rimuovere come emanatrici di menzogna e di superstizione; ma una fabula suadente e simbolicamente ricchissima, tanto per le implicazioni magico-rituali (vero e proprio serbatoio per gli stessi poemi omerici), quanto per il passaggio da quel paralinguaggio del rituale al vero e proprio meta-linguaggio del racconto mitico che, secondo Lévi-Strauss, "fa un uso 'forte' del discorso, ma situando le opposizioni significanti che gli sono proprie su un grado di complessità più alto di quello richiesto dalla lingua quando funziona per fini profani"; senza contare - e siamo con ciò più precisamente all'interno dei valori tematici programmati in questa mostra il rivestimento fantasticamente acceso di una funzione economico-sociale come quella dell'espansione del dominio: una funzione in certo modo impcrialistica, definita attraverso il suo simbolo centrale come sistema arcaico di una sorta di rendita finanziaria, se è vero che il vello è oro e produce oro (da quell'elemento letteralmente "calamitante" che esso è per tutta la vicenda) e che la abilissima copertura simbolica della sua funzione non nasconde i suoi caratteri di fine sotto le prestese valenze di elemento puramente rituale e mediatore. Quattro pittori si incontrano a Collegno attorno alla intrepretazione del mito argonautico. Osserva Furio Jesi che "la capacità dell'arte di utilizzare miti per fini non conservatori si direbbe intimamente legata alle possibilità di ironia nell'arte: alla facoltà di utilizzare elementi compositivi con un distacco ironico che non lede la loro vitalità". Sarà per questo che, a parte le presumibilmente numerosissime espressioni di arte vascolare sorte nell'antichità, l'arte moderna è solita rinviare in argomento a due tavolette per mano del ferrarese Ercole de' Roberti, ma non pare in grado di spingersi molto oltre. Ma pure questa utilizzazione di "elementi compositivi" ridiviene possibile in una moderna e ironica decostruzione dell'intreccio, attuando, sul gigantesco affresco narrativo, una serie di prelievi di carattere, diremmo, metonimico, cioè posti tra loro in una relazione di contiguità logica ma contrassegnati da enormi vuoti interni, da veri e propri black-out che spengono la continuità dimostrativa e didascalicca dell'intreccio: l'effetto per la causa, la parte per il tutto, l'agente per l'agito, l'astratto per il concreto. E viveversa, beninteso. Sembra anzi inevitabile che nei nostri quattro artisti si sia verificata una convergenza non concordata su quel grande archetipo di intercambiabilità tra mezzi e fini che è il viaggio, privilegiato come elemento di coesione sul piano di quella espressione di ironia-metonimia che sembra essere la via maestra di rivisitazione del mito in chiave moderna e contemporaneamente come elemento di compatibilita tra le categorie dello spazio e del tempo (lo spazio propriamente materiale del quadro in rapporto allo spazio fisico della vicenda e il tempo di aggregazione o di scontro degli apparati simbolici citati). Un alto grado di investimenti citazionistici caratterizza l'opera di Billetto,che attualizza dentro un energico impianto compositivo-spaziale gli strumenti materiali del movimento e contemporaneamente li decostruisce in un ambito di disgregazione e di perdita della relazionalità, secondo quel procedimento di isolamenti oggettuali, di straniamenti ambientali, che gli è proprio. L'ordine compositivo preesiste alla narrazione e va piuttosto cercato nella intenzionalità di una "geometria dell'essere" entro la quale i fenomeni tentano le loro corrispondenze e attrazioni e la descrizione dei fenomeni nella loro connessione è tanto incongrua quanto perdente, alla stregua di quegli embrioni di alfabeto che si sgretolano ai margini del quadro, citazioni svuotate di echi di sapere che permangono come relitti, pure intonazioni.
Casorati nega, come un antico mentre a penser presocratico, l'ipotesi stessa di movimento, costruendo il viaggio dentro un labirinto inteso contemporaneamente come ordine e come illusione geometrica pura. Il viaggio, mentre viene proposto nella smagliante evidenza dei suoi contorni simbolici, viene al tempo stesso revocato come fenomeno praticabile: il labirinto, luogo archetipico della falsificazione e dello smarrimento, è in più un falso labirinto, doppiamente chiuso, un puro logos che ha perduto anche i presupposti potenziali di percorribilità mistificata ma pur sempre sensibile che costituivano il labirinto come sede di cimento reale dell'eroe: la nave, dipinta in posizione non prospettica, è un segno paralogistico che sbarra l'accesso al falso labirinto e la paralisi sincronica diviene qui il valore sancito in sede definitiva. Gli elementi di fervore e di progettualità sono esaltati nel lavoro di Comencini in un saliscendi organizzativo che è contemporaneamente preparativo e naufragio, premessa e rinuncia. La finzione è qui resa doppia dalla ambientazione di teatro e il gesto d'ingresso nella rappresentazione vera e propria ci rivela che lo spettacolo cui siamo chiamati ad assistere è sì una preparazione dello spettacolo, ma è una preparazione ambigua che si giustifica, essa stessa, come spettacolo e lo esaurisce: la costituzione di un luogo chiuso, di una arsenale, entro quello spazio aperto per eccellenza che è il mare, espone il bisogno di una dimensione protettiva resa familiare dalla operosità nella quotidianità; l'ironia di Comencini non è mai disgiunta da tracce di angoscia e costituisce, rispetto a queste ultime, un elemento di autorassicurazione psicologica. Soffiantino costruisce invece una macchina come microcosmo, macchina infera dominata dalla potenza del drago-custode e contemporaneamente macchina eterea e spaziale che si dilata a proporzioni di macrocosmo attraverso lo sviluppo di tensione del fasciame della nave verso la struttura superiore dei cieli. Nella particolare strutturazione sferica dell'opera, nocciolo iscritto dentro il suggerimento macrocosmico, viene dato rilievo agli elementi tenebrosi del viaggio, al carattere degli ostacoli e delle prove rituali, alle componenti sotterranee e magiche dell'impresa senza nascondere che l'esaltazione della componente orrifica e affabulatoria dell'intreccio, piuttosto che a elementi di visionarietà va riferita a sua volta all'adesione ironica a una idea del viaggio come puro progetto, come condizione non verificabile al di fuori del vistoso flatus didascalico che condensa il racconto in un significante elementare. Dal viaggio come paralogismo geometrico (Casorati), al viaggio come alibi del suo momento materialisticamente fondante (Comencini), dal viaggio come dialettica tra microcosmo e macrocosmo (Soffiantino), al viaggio come disseminazione di simulacri entro la struttura spaziale vissuta come prius mentale (Billette), si snoda questa avventura argonautica odierna alla quale partecipano, assieme a quattro affermati protagonisti della ricerca artistica oggi, altrettanti giovani designati da una giuria. Li citiamo volentieri: sono le ceramiste Laura Mazzarri e Tiziana Gay con i grafici Sergio Stefano e Maurizio Bellan.
Torino, maggio '86 Giorgio Luzzi


Gli Argonauti: un mito per una mostra


Un terribile drago custodiva nel bosco sacro a Ares, nella Colchide, il vello di un ariete d'oro sacrificato a Zeus; a cavallo di questo ariete avevano trovato scampo in oriente i due figli di Nefele e diAtamante, perseguitati da Ino, seconda moglie di Atamante. Alcune generazioni più tardi, in seguito a una serie di complicate vicende al centro delle quali gravitavano contese di sovranità, il giovane Giasone, che era stato educato dal centauro Chirone, rivendicando il regno di Iolco e impeditone copertamente da Pelia, fu sfidato da quest'ultimo all'impari impresa: la spedizione nella Colchide per la riconquista del vello d'oro. Qui ha inizio la vera e propria leggenda degli Argonauti: Giasone fa costruire da Argo una nave di cinquanta remi, le da in dotazione un numero pari di eroi, tra i quali i Dioscuri, Peleo, Teseo, Orfeo e, per un tratto, lo stesso Eracle, attraversa l'Ellesponto, raggiunge la Bitinta e la Tracia, elude magicamente l'insidia delle Simplegadi (scogli mobili che velocemente stritolavano le navi all'entrata del Ponto Eusino), supera altre prove e giunge finalmente in vista della terra del vello d'oro. Qui entra in scena Medea, la bellissima figlia del rè del luogo, dotata di poteri magici: innamoratasi di Giasone, lo aiuta a vincere gli ultimi ostacoli, primo fra tutti la soppressione del drago, e a impadronirsi del vello, ripartendo poi assieme all'eroe nel viaggio di ritorno alla volta dell'occidente, fino al regno di Iolco dove la consegna del vello al rè Pelia avrebbe dovuto sancire il passaggio di sovranità sul territorio in favore di Giasone stesso. A questo punto il mito di Giasone lascia spazio al mito di Medea, che diviene in qualche modo una narrazione indipendente da quella intorno agli Argonauti e che è a sua volta non meno nota della prima, soprattutto in virtù dei frequenti e celebri impieghi che ne verranno fatti dalla stratificazione letteraria successiva. Quanto alla conclusione del viaggio degli Argonauti, esistono differenti versioni del mito: una di esse, dovuta al poeta alessandrino Apollonio Rodio, vuole che il ritorno degli eroi sia avvenuto dall'estrema parte occidentale del mondo abitato, raggiunta risalendo l'Europa sino alle Colonne d'Erede attraverso la navigazione parziale dei grandi fiumi, il Danubio, il Po, il Rodano.