Catalogo
Questa, per velocissimi tratti informativi, la vicenda: una fabula al solito
complicatissima, di quelle, per intenderci, che gli antichi filosofi tendevano
a rimuovere come emanatrici di menzogna e di superstizione; ma una fabula
suadente e simbolicamente ricchissima, tanto per le implicazioni magico-rituali
(vero e proprio serbatoio per gli stessi poemi omerici), quanto per il passaggio
da quel paralinguaggio del rituale al vero e proprio meta-linguaggio del racconto
mitico che, secondo Lévi-Strauss, "fa un uso 'forte' del discorso,
ma situando le opposizioni significanti che gli sono proprie su un grado di
complessità più alto di quello richiesto dalla lingua quando
funziona per fini profani"; senza contare - e siamo con ciò più
precisamente all'interno dei valori tematici programmati in questa mostra
il rivestimento fantasticamente acceso di una funzione economico-sociale come
quella dell'espansione del dominio: una funzione in certo modo impcrialistica,
definita attraverso il suo simbolo centrale come sistema arcaico di una sorta
di rendita finanziaria, se è vero che il vello è oro e produce
oro (da quell'elemento letteralmente "calamitante" che esso è
per tutta la vicenda) e che la abilissima copertura simbolica della sua funzione
non nasconde i suoi caratteri di fine sotto le prestese valenze di elemento
puramente rituale e mediatore. Quattro pittori si incontrano a Collegno attorno
alla intrepretazione del mito argonautico. Osserva Furio Jesi che "la
capacità dell'arte di utilizzare miti per fini non conservatori si
direbbe intimamente legata alle possibilità di ironia nell'arte: alla
facoltà di utilizzare elementi compositivi con un distacco ironico
che non lede la loro vitalità". Sarà per questo che, a
parte le presumibilmente numerosissime espressioni di arte vascolare sorte
nell'antichità, l'arte moderna è solita rinviare in argomento
a due tavolette per mano del ferrarese Ercole de' Roberti, ma non pare in
grado di spingersi molto oltre. Ma pure questa utilizzazione di "elementi
compositivi" ridiviene possibile in una moderna e ironica decostruzione
dell'intreccio, attuando, sul gigantesco affresco narrativo, una serie di
prelievi di carattere, diremmo, metonimico, cioè posti tra loro in
una relazione di contiguità logica ma contrassegnati da enormi vuoti
interni, da veri e propri black-out che spengono la continuità dimostrativa
e didascalicca dell'intreccio: l'effetto per la causa, la parte per il tutto,
l'agente per l'agito, l'astratto per il concreto. E viveversa, beninteso.
Sembra anzi inevitabile che nei nostri quattro artisti si sia verificata una
convergenza non concordata su quel grande archetipo di intercambiabilità
tra mezzi e fini che è il viaggio, privilegiato come elemento di coesione
sul piano di quella espressione di ironia-metonimia che sembra essere la via
maestra di rivisitazione del mito in chiave moderna e contemporaneamente come
elemento di compatibilita tra le categorie dello spazio e del tempo (lo spazio
propriamente materiale del quadro in rapporto allo spazio fisico della vicenda
e il tempo di aggregazione o di scontro degli apparati simbolici citati).
Un alto grado di investimenti citazionistici caratterizza l'opera di Billetto,che
attualizza dentro un energico impianto compositivo-spaziale gli strumenti
materiali del movimento e contemporaneamente li decostruisce in un ambito
di disgregazione e di perdita della relazionalità, secondo quel procedimento
di isolamenti oggettuali, di straniamenti ambientali, che gli è proprio.
L'ordine compositivo preesiste alla narrazione e va piuttosto cercato nella
intenzionalità di una "geometria dell'essere" entro la quale
i fenomeni tentano le loro corrispondenze e attrazioni e la descrizione dei
fenomeni nella loro connessione è tanto incongrua quanto perdente,
alla stregua di quegli embrioni di alfabeto che si sgretolano ai margini del
quadro, citazioni svuotate di echi di sapere che permangono come relitti,
pure intonazioni.
Casorati nega, come un antico mentre a
penser presocratico, l'ipotesi stessa di movimento, costruendo il viaggio
dentro un labirinto inteso contemporaneamente come ordine e come illusione
geometrica pura. Il viaggio, mentre viene proposto nella smagliante evidenza
dei suoi contorni simbolici, viene al tempo stesso revocato come fenomeno
praticabile: il labirinto, luogo archetipico della falsificazione e dello
smarrimento, è in più un falso labirinto, doppiamente chiuso,
un puro logos che ha perduto anche i presupposti potenziali di percorribilità
mistificata ma pur sempre sensibile che costituivano il labirinto come sede
di cimento reale dell'eroe: la nave, dipinta in posizione non prospettica,
è un segno paralogistico che sbarra l'accesso al falso labirinto e
la paralisi sincronica diviene qui il valore sancito in sede definitiva. Gli
elementi di fervore e di progettualità sono esaltati nel lavoro di
Comencini in un saliscendi organizzativo
che è contemporaneamente preparativo e naufragio, premessa e rinuncia.
La finzione è qui resa doppia dalla ambientazione di teatro e il gesto
d'ingresso nella rappresentazione vera e propria ci rivela che lo spettacolo
cui siamo chiamati ad assistere è sì una preparazione dello
spettacolo, ma è una preparazione ambigua che si giustifica, essa stessa,
come spettacolo e lo esaurisce: la costituzione di un luogo chiuso, di una
arsenale, entro quello spazio aperto per eccellenza che è il mare,
espone il bisogno di una dimensione protettiva resa familiare dalla operosità
nella quotidianità; l'ironia di Comencini non è mai disgiunta
da tracce di angoscia e costituisce, rispetto a queste ultime, un elemento
di autorassicurazione psicologica. Soffiantino
costruisce invece una macchina come microcosmo, macchina infera dominata dalla
potenza del drago-custode e contemporaneamente macchina eterea e spaziale
che si dilata a proporzioni di macrocosmo attraverso lo sviluppo di tensione
del fasciame della nave verso la struttura superiore dei cieli. Nella particolare
strutturazione sferica dell'opera, nocciolo iscritto dentro il suggerimento
macrocosmico, viene dato rilievo agli elementi tenebrosi del viaggio, al carattere
degli ostacoli e delle prove rituali, alle componenti sotterranee e magiche
dell'impresa senza nascondere che l'esaltazione della componente orrifica
e affabulatoria dell'intreccio, piuttosto che a elementi di visionarietà
va riferita a sua volta all'adesione ironica a una idea del viaggio come puro
progetto, come condizione non verificabile al di fuori del vistoso flatus
didascalico che condensa il racconto in un significante elementare. Dal viaggio
come paralogismo geometrico (Casorati), al viaggio come alibi del suo momento
materialisticamente fondante (Comencini), dal viaggio come dialettica tra
microcosmo e macrocosmo (Soffiantino), al viaggio come disseminazione di simulacri
entro la struttura spaziale vissuta come prius mentale (Billette), si snoda
questa avventura argonautica odierna alla quale partecipano, assieme a quattro
affermati protagonisti della ricerca artistica oggi, altrettanti giovani designati
da una giuria. Li citiamo volentieri: sono le ceramiste Laura Mazzarri e Tiziana
Gay con i grafici Sergio Stefano e Maurizio Bellan.
Torino, maggio '86 Giorgio Luzzi
Gli Argonauti: un mito per una mostra
Un terribile drago custodiva nel bosco sacro a Ares, nella
Colchide, il vello di un ariete d'oro sacrificato a Zeus; a cavallo di questo
ariete avevano trovato scampo in oriente i due figli di Nefele e diAtamante,
perseguitati da Ino, seconda moglie di Atamante. Alcune generazioni più
tardi, in seguito a una serie di complicate vicende al centro delle quali
gravitavano contese di sovranità, il giovane Giasone, che era stato
educato dal centauro Chirone, rivendicando il regno di Iolco e impeditone
copertamente da Pelia, fu sfidato da quest'ultimo all'impari impresa: la
spedizione nella Colchide per la riconquista del vello d'oro. Qui ha inizio
la vera e propria leggenda degli Argonauti: Giasone fa costruire da Argo una
nave di cinquanta remi, le da in dotazione un numero pari di eroi, tra i quali
i Dioscuri, Peleo, Teseo, Orfeo e, per un tratto, lo stesso Eracle, attraversa
l'Ellesponto, raggiunge la Bitinta e la Tracia, elude magicamente l'insidia
delle Simplegadi (scogli mobili che velocemente stritolavano le navi all'entrata
del Ponto Eusino), supera altre prove e giunge finalmente in vista della terra
del vello d'oro. Qui entra in scena Medea, la bellissima figlia del rè
del luogo, dotata di poteri magici: innamoratasi di Giasone, lo aiuta a vincere
gli ultimi ostacoli, primo fra tutti la soppressione del drago, e a impadronirsi
del vello, ripartendo poi assieme all'eroe nel viaggio di ritorno alla volta
dell'occidente, fino al regno di Iolco dove la consegna del vello al rè
Pelia avrebbe dovuto sancire il passaggio di sovranità sul territorio
in favore di Giasone stesso. A questo punto il mito di Giasone lascia spazio
al mito di Medea, che diviene in qualche modo una narrazione indipendente
da quella intorno agli Argonauti e che è a sua volta non meno nota
della prima, soprattutto in virtù dei frequenti e celebri impieghi
che ne verranno fatti dalla stratificazione letteraria successiva. Quanto
alla conclusione del viaggio degli Argonauti, esistono differenti versioni
del mito: una di esse, dovuta al poeta alessandrino Apollonio Rodio, vuole
che il ritorno degli eroi sia avvenuto dall'estrema parte occidentale del
mondo abitato, raggiunta risalendo l'Europa sino alle Colonne d'Erede attraverso
la navigazione parziale dei grandi fiumi, il Danubio, il Po, il Rodano.