Quattro pittori, lirici ed inquieti, ognuno nella propria autonomia creativa, hanno narrato, o meglio cantato, il "loro" Orfeo. Mito non facile da chiarire, misterioso. Romano Campagnoli, Nando Eandi, Ettore Fico e Giorgio Ramella, nei loro squisiti racconti dove il rimpianto è costante, hanno messo tutta la loro attenzione nel non disubbidire agli Dèi. Hanno infatti narrato, in questi loro lavori dall'atmosfera sospesa tra il sacro e il profano, i riti del mistero orfico, ma senza superare la soglia dell'Ade. Tutti si sono fermati al limite, dove c'è ancora il respiro della vita. Dietro il mondo in fiore di Fico pare, infatti, esserci l'utopica attesa di un ritorno, quello di Orfeo che tiene per mano Euridice.
A questa inutile speranza risponde Campagnoli con una
bufera informale, lirica, un'inquietante espressività del castigo divino.
Eandi, invece, opera trasfigurando le necropoli, da lui tanto amate del viterbese,
in un'allusività collegata al mito di Orfeo, con trasparenze simili
all'acquarello. Il poeta desolato di Ramella, invece, torna dal viaggio nella
notte e pare avviarsi indifeso verso il destino-condanna d'essere ucciso dalle
baccanti. Di fronte al mito di Orfeo, questi quattro maestri si sono dimostrati
capaci di non farsi cogliere da sottolineature illustrative. Anzi. L'episodio-mito,
essi l'hanno vissuto ed interpretato in un'espressività astratto evocativa.
Non è facile, infatti, essere artisti del proprio tempo e narrare in
chiave contemporanea un'ombra antica, come quella del mistero della morte.
Personalmente il mito di Orfeo l'ho sempre vissuto come un grande e struggente
episodio, dove per uno strano sogno-inganno, l'impossibile pareva possibile.
Negli anni giovanili, avevo fatto mia questa quartina, dai Sonetti ad Orfeo
di Rainer Maria Riike, tradotti da Giaime Pintor:
"Il canto che tu insegni non è brama, / non
è speranza che conduci a segno. / Cantare è per tè esistere.
Un impegno facile al dio. Ma noi, noi quando siamo?.
Il mito del "cantore solitario", infatti,
ha esercitato sempre un grande fascino su artisti e poeti. A livello di rappresentazione
visiva una delle opere, a mio avviso, più tenere e belle è l'Orfeo,
Euridice e Mercurio, un bassorilievo del Quinto secolo a.C. ben conservato,
visibile al Louvre. Tutti sono stati tentati dal mistero che si cela dietro
questo episodio-simbolo, e in modo suggestivo i miei amici Campagnoli, Eandi.
Fico, Ramella. Essi hanno avuto presente che la storia antica, dalla mitologia
greca al Vecchio Testamento, è spesso la testimonianza di quanto gli
Dèi (e Dio stesso) siano severi con l'umana trasgressione. Adamo ed
Èva, infatti, sono stati cacciati dal Paradiso terrestre per aver disubbidito
il Signore. Così, pure, Orfeo. Egli aveva ricevuto il privilegio, raro,
di accedere all'Ade per ritrovare Euridice, ma all'ordine di non voltarsi,
volse lo sguardo egualmente e perse definitivamente la sua amata. Così,
noi pure, spesso tentati di sondare il mistero della morte, ci ritroviamo
ad interrogarci su ciò che Riike chiamava la tragica soglia.
Torino, maggio 1988
PAOLO LEVI