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Il mito di Dedalo: il Labirinto
"Nel labirinto di carta", definisce un quotidiano
torinese del 13 maggio il Salone del libro. Esangue e superfìcializzato,
largamente sfuggente alle antiche coordinate passionali, l'archetipo continua
a lambire le nostre coste con il suo guscio puramente nominalistico e massificato.
Più di tremila anni di permanenza del mito ne hanno documentato la
flessibilità ai gusti storico-culturali, -mettendone in evidenza un
percorso di progressivo svuotamento della funzione e di corrispondente appropriazione
formalistica e intellettuale
Cominciamo dalla contemporaneità. Ne L'Aleph di Borges esso appare
in veste di duplice recupero: da un lato l'universo cartaceo della Biblioteca
di Babele (cui si rifa notoriamente Umberto Eco nel "Nome della rosa")
come referente nominalistico e spettrale di una conoscenza universale possibile
soltanto nell'ipotesi di una sua ricognizione topologica, dall'altro la cancellazione
dell'archetipo nel suo opposto, il desero assoluto nel quale un antico sovrano
abbandona il suo rivale intendendo dimostrargli che la dimensione atopica
è il labirinto più irreversibile nella moltiplicazione innumerevole
dei possibili percorsi. Che poi tutto ciò sia narrato da un Joseph
Cartaphillus, fornisce traccia evidente del raccordo tra i due piani: la nominalizzazione
del mito, la traduzione in scrittura degli antichi calchi rituali e contemporaneamente
il perfezionamento sterilizzato della loro fatalità.
La voce "labirinto" (ma è questione controversa, se dobbiamo
credere al fondamentale studio di Paolo Santarcangeli, (Il libro
dei labirinti, Vallecchi 1967) si fa risalire al labrys, l'ascia bipenne raffigurata
abbondantemente sulle rovine di Cnosso.
La vicenda è nota a tutti: Giove, in sembiante di toro, rapisce Europa;
dall'unione dei due nasce Minos, che sposa Pasifae; quest'ultima, per volere
divino, si invaghisce di un toro inviato da Posidone e trova il modo di accoppiarsi
con lui ("Nella vacca entra Pasifae / perché i1 torello a sua
lussuria corra"; Purgatorio, XXVI, 41-42); ne nasce il Minotauro, frutto
della perversione poi isolato al centro di un labirinto costruito appositamente
da Dedalo; in seguito a conflitti egemonici con Atene, Minos ottiene che ogni
nove anni sette giovani e altrettante fanciulle siano dati in pasto al Minotauro;
fra questi, Teseo, che con la complicità di Arianna, figlia di Minos,
penetra dipanandosi dietro il filo di lana assegnategli dall'amata e uccide
il mostro. Storicamente il mito rappresenta con probabilità l'affievolirsi
della egemonia cretese e l'avvento della supremazia ateniese.
Ma l'archetipo è sicuramente anteriore e ben più complesso e
le sue tracce si trovano disseminate in larghi strati dell'orizzonte euro-asiatico
e in parte anche altrove. In epoche diverse il simbolo si fisserà per
esempio su Troia (città assediata, oggetto di esplorazione e di penetrazione)
e su Gerusalemme (luogo santo, centro del viaggio di purificazione). L'archetipo,
che si fìssi sull'eroe o sul percorso coscienziale, rinvia al viaggio
di iniziazione e implica gli eventi della morte e della rigenerazione: attraverso
la prova, il dubbio, il bivio (elementi strutturali connessi all'itinerario
plastico del modello), la soppressione del Minotauro rispecchia l'assedio
che la tensione umana esercita sul mostruoso, sul diverso, e l'attore è
appunto il principio solare diretto da Eros. Occorre morire per rinascere:
sogno d'angoscia o "della peregrinazione impedita" (Santarcangeli),
il viaggio labirintico (labor intus, secondo la proposta intrapsichica di
Sanguineti) si dirige verso la conquista di una nuova modalità dell'io,
frutto di una rigenerazione cui non sono estranei il carattere ctonio della
discesa agli inferi, l'esplorazione del Centro materno, l'equilibrio tra Caos
e Cosmo, l'opposizione tra spazialità e chiusura, tra istinto e astuzia,
tra condizione protettiva-inclusiva e trappola carceraria, tra antiveggenza
e miopia intesa come progressivo e cauto contatto con le tappe del viaggio.
Nella sua casistica svariatissima, reperibile sotto ogni cielo e fatta accanitamente
oggetto, proprio nelle fasi del suo sbiadirsi drammatico, di interpretazioni
manieristiche, il labirinto rinvia a una planimetria esistenziale che ci suggerisce,
con Kerényi, come "mitologemi e simboli religiosi non possono
essere risolti alla stregua di problemi, ma solo essere ricondoti a idee,
archetipi, figure primigenie". Da qui la sua enorme fortuna entro l'area
dell'immaginario. Da qui la proposta odierna, rinvenibile nel lavoro di un
gruppo di artisti dell'area torinese: Nino Aimone incide imbocchi su una forma
di arenaria solare, deviando sulla geometricità del visibile l'ozio
informe e segreto dell'intemo; Mauro Chessa moltiplica barriere abitative
contro il panico di figure umane in fuga, accentuando lo stato di disorientamento
dinamico del prototipo; Riccardo Corderò spoglia le costanti iconografiche
riducendole a una sorta di opposizione tra strutture razionali e strutture
del caos; Sergio Saccomandi mette allo scoperto l'intrico biologico e la sua
precarietà, omologando le funzioni alte e le funzioni basse della materia
in partiture speculari. Accompagnano la mostra i lavori di quattro allievi
dei corsi di arti visive della Associazione Argonauti.
Maggio 89
GIORGIO LUZZI