Il mito di Eros: una metafora dell'arte
«Da principio c'era Caos e Notte ed Erebo nero
e
l'ampio Tartaro,
ma non c'era terra ne aria ne ciclo; e nel seno
sconfinato di Erebo
Notte dalle ali nere genera anzitutto un uovo
sollevato dal vento,
da cui nelle stagioni ritornanti in cerchio sbocciò
Eros il desiderabile,
con il dorso rifulgente per due ali d'oro, simile a
rapidi turbini di vento.
E costruì di notte mescolandosi con Caos alato,
nell'ampio Tartaro,
fece schiudere la nostra stirpe, e per prima
la condusse alla luce.
Sino allora non c'era la stirpe degli immortali, prima
che Eros avesse mescolato assieme ogni cosa;
ma essendo mescolate le une alle altre, nacquero
Cielo e Oceano
e Terra e la stirpe senza distruzione di tutti gli dèi
felici».
ARISTOPHANE, Uccelli 693-702 (traduzione di G. Colli)
Il mito di Eros è celeberrimo, più di ogni
altro sopravvive nella nostra cultura attuale, ma in una chiave decisamente
riduttiva rispetto alla varietà e alla complessità delle interpretazioni
che lo hanno caratterizzato fin dalle origini: da Esiodo, che parla di Eros
come una delle tré divinità primordiali insieme al Caos e Gaia
(la terra), alle "Rapsodie" orfiche che fanno risalire a Eros (Phanes)
tutti gli altri dèi, cosicché persino Zeus e Dioniso sarebbero
sue metamorfosi, ad Aristofane, anch'egli influenzato dall'Orfismo, per il
quale Eros è il dio più antico, colui che origina la stirpe
degli dèi e il solo che possa realizzare la riunione delle due metà
(maschile e femminile, ma anche dèi e uomini, cielo e terra) separate
da Zeus.
O Socrate che, citando la sacerdotessa Diotima, parla di Eros non come di
un dio vero e proprio, ma come di dèmone (intermediario tra dèi
e uomini) che trasforma l'aspirazione degli uomini verso il bello e il bene
in una "possessione per- petua", per mezzo della procreazione secondo
il corpo e della creazione secondo l'anima. Infine, la principale e più
tarda tradizione mitologica greca opera già una riduzione (più
vicina a noi) dell'importanza del ruolo di Eros, rendendolo inseparabile e
dipendente (o anche generato) da Afrodite, e con una sfera d'influenza limitata
alle relazioni amorose tra uomini e donne. Sul versante gnostico. Eros rimane
il tramite che ricongiunge gli opposti e mescola gli elementi primordiali,
illuminando dèi e uomini con la sua ineguagliabile bellezza, ma è
anche colui che generando la figlia Voluttà, da cui sorgono l'unione
e conseguentemente la procreazione e la morte, da origine al ciclo doloroso
dell'esistenza mortale. L'Eros gnostico si situa quindi in una condizione
intermedia tra la luce del Padre e le tenebre del Caos: egli si trova (come
nel Simposio platonico) nel giardino degli dèi, con un'ambivalenza
(e un ermafroditismo) fondamentale che coniuga il principio di piacere e di
fecondità con un principio di distruzione e di morte. Oggi Eros non
è più neanche il nome proprio di un dio, bensì il nome
comune dell'attrazione e della relazione amorose, e più precisamente
sessuali: da Eros all'eros. Da tale quadro molto sommario delle metamorfosi
di Eros, che in questa occasione diventa però una lunga premessa a
una mostra d'arte contemoranea che a quel mito vuole ispirarsi, emergono gli
spunti per individuare una grande metafora della creazione artistica. In estrema
sintesi si può dire che Eros è l'emblema dell'energia creativa
(che ha come fondamento appunto l'energia amorosa), da non intendere però
a senso unico, come tuttotondo positivo o come luogo comune liberatorio, ma
piuttosto come sicura tensione e precaria avventura dell'atto generativo:
passione amorosa ma anche sacrificale. Nello specchio di Eros può dunque
riconoscersi l'artista nella sua generalità di artefice dell'opera,
ma anche ciascun artista nella sua irriducibile singolarità (nel nostro
caso Brazzani, Carena, Gyarmati e Surbone).
L'artista unisce le materie, riempie spazi e superfici, porta alla manifestazione
o riproduce figure di mondi invisibili o sensibili, si rinchiude solitario
nel suo studio (idealmente un "giardino degli dèi", fatto
di aria, luce, materie prime da plasmare e visioni) e si accanisce su sentieri
inesplorati e agli altri decisamente ignoti o incomprensibili. Ma perché
lo fa? Cosa glielo fa fare? Quando l'opera infine si mostra, il suo pubblico
occasionale la osserva come un miracolo prodotto da una particolare (divina?)
"follia", e questa follia è forse proprio la "possessione
perpetua" indotta da Eros di cui parlava Socrate: ogni artista è
figlio di una visione di Eros. Una visione che consegna nell'opera l'utopia
di una ri- congiunzione (a se stessi, all'altro, al mondo: vocazione all'Uno),
e l'artista si prova tisicamente, in una relazione davvero erotica col fare,
di trasferirsi in un solo gesto risolutivo nell'opera, specchio magico trasfigurante,
per divenire in essa" dio", "immortale e unico", portando
materia e figura, quindi il mondo, a una (qualsiasi) verità originale
e insieme originaria. Ciò che forse distingue un lavoro dall'opera
è proprio l'investimento di "eros" a quest'ultima necessaria.
Nella singolarità delle opere degli artisti in mostra, emerge puntualmente
un denominatore comune: il doppio, che per Brazzati e Surbone si dichiara
nella scelta di un grande dittico, e per Carena e Gyarmati si rivela nel raddoppiamento
degli elementi intemi del quadro (due pianisti e le due parole ripetute "donna-sesso").
Duplicità che, nel dominio di Eros, è insieme la testimonianza
di una separazione avvenuta e la volontà di una ricongiunzione; si
tratta di una ricomposizione annunciata, così i due pianisti della
Gyarmati sono uniti da un'inascoltabile esecuzione musicale che diviene esecuzione
pittorica e cromatica, dove i due corpi dei pianoforti si compenetrano in
uno slancio ascensionale e in un nero acceso dalla passione del rosso. Qui
dunque l'unione si da per sublimazione artistica, mentre per Carena la fusione
ritmica delle due parole-tracce (realizzate aerograficamente) modula il bianco
vergine su un fondo rosso cupo come sangue, mutando le figure dell'eros in
puro nome, scrittura di quell'oscuro oggetto del desiderio "donna-sesso"
che diviene il fantasma della pittura ed anche, provocatoriamente, il fantasma
di una "cultura" che ha ridotto l'eros a parola vuota. In Brazzani,
Eros si accompagna a Pan; dell'uno rimane l'impronta di una ferita speculare
(sottolineata dalla separazione simmetrica delle due parti del dittico) che
viene cicatrizzata proprio dalla pittura, ed è inscritta in un cerchio
che segnala l'unione originaria ed insieme la ciclicità della ri-generazione
(la terra è fecondata da Eros); dell'altro, Pan (dio del tutto, metà
uomo e metà animale) si eleva la doppia asta ad indicare forse la predominanza
di un istinto primordiale che regge, come un timone, le sorti dell'intera
natura. Infine Surbone, con le sue due sagome bucate a forma ovoidale (e rovesciate
l'una rispetto all'altra), coglie emblematicamente, ma con precisione quasi
filologica il mito originario di Eros: colui che sorge dall'uovo della Notte
(la zona inferiore nera) e, nella sua ascesa alata, genera a sua volta gli
dèi, mescolando con il Caos ogni cosa (la zona superiore del grigio,
miscela dei diversi colori e di gesti più marcati). Dalle tenebre alla
luce - e alle sue rifrazioni cromatiche, dall'uovo al mondo, da Eros alla
pittura.
Andrea Balzola
Torino, maggio 90