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Il Mito di Athena
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1997
Recensione di Paolo Nesta
Il mito di Athena Pallade

A-ta-na po-ti-ni-ja, divinità dei sovrani micenei, rinnova il proprio ruolo di potnia, cioè di signora di Atene nell'età classica, conservando l'antico attributo di coreparthenos e rafforzando, con la nascita dal cranio di Zeus, le antiche prerogative tutelari e di autorità. Il suo trionfo sulla polis, monumentalmente sanzionato con l'erezione del Partenone sull'Acropoli, coincide con il grande patto che gli uomini, suoi protetti e «concittadini», stipulano complessivamente con la dea e con la nuova stirpe olimpica.
Zeus acconsente a condividere con la figlia l'egida, lo scudo che difende e insieme offende, strumento globale di potere, che al centro reca l'immagine del capo della Gorgone, mostro infernale la cui sconfitta e morte, come vogliono alcune narrazioni, spetta appunto ad Alena e non a Perseo. Il suo trionfo sulle forze infernali, coerente con quello conseguito sulle divinità ctonie dal nuovo Olimpo, governato da Giove, ripercorre vittoriosamente e virtuosamente le vicende di confronto con le forze infere - affrontato durante le vicende di mone e di rinascita nelle vesti della core micenea - e «autorizza» la dea, nella memoria degli antichi riti iniziatici, divenuta tutelatrice degli eroi, ad essere prodiga di doni agli uomini, ad assumere la funzione di protettrice delle loro arti e a farsi garante della pace e della prosperità della polis ateniese. La «sua» proposta di contratto sociale, in qualche modo rousseauianamente ante luterani, impegna gli antichi ateniesi in un progetto complessivo di ricostruzione e ridefinizione della propria identità sociale e culturale, che coinvolge tutti gli aspetti della interpretazione della realtà.
Grazie alla rinata certezza nel dominio (anche politico) della terra e ad un più rassicurante rapporto con le forze sotterranee, entrambi garantiti dall'egida di Pallade, gli ateniesi del v-iv secolo a.C. guardano agli eidola, alle immagini prodotte dai pittori, dagli scultori e dai ceramisti, con intenzioni e sguardi nuovi, tesi ad indagare tra le differenze di rapporto tra le parole - e più in generale il discorso - e le cose nominate e a proposito della relazione di sembianza che intercorre tra l'immagine e il suo modello e a distinguere l'attività demiurgica dell'artigiano da quella «mimetica» dell'artista. Il gioco dell'imitazione, il gioco del Medesimo e dell'Altro, non si pone più, come accadeva al pensiero arcaico, nella dialettica della presenza e dell'assenza, svolta nella dimensione dell'aldilà che l'eidolon, in quanto doppio, comporta nel prodigio di un invisibile che per un istante si fa vedere.
Ora il gioco giunge a circoscrivere, tra l'essere e il non essere, tra il vero e il falso, lo spazio del fittizio e dell'illusorio, in cui si collocano i diversi generi delle procedure «imitative». Eidola, eikones, phantasmata, i frutti della phantasia immersa nel flusso del sensibile, rigorosamente opposto da Fiatone all'intelletto, sono visti come i prodotti oggettivi di determinate arti. Respinte e perdute le funzioni che il pensiero arcaico le riconosceva come processo di conoscenza, via di accesso all'essere a partire dalle sue manifestazioni visibili, l'immaginazione, la facoltà di produrre immagini, è ancorata dall'uomo ateniese alla phantasia, che si configura come lo stato del pensiero in cui si da il proprio assenso spontaneo all'apparenza che rivestono le cose, alla forma in cui si danno a vedere. L'imerpretazione dell'immagine proposta dalla teoria dell'imitazione» non è, tuttavia, che una importante tappa dell'elaborazione di questa fondamentale categoria nel pensiero occidentale lungo il cammino che la condurrà verso la moderna comprensione, nella sua dimensione di fatto e di coscienza.
Solo la consapevolezza della distinzione tra sensazione ed immagine, infatti, consente di reintegrare la categoria dell'agente, la nozione del potere creativo dell'uomo, la sua piena libertà di azione nel campo dell'artificio, dell'invenzione, dell'innovazione. E solo a queste condizioni è concesso all'artista contemporaneo l'affascinante percorso a ritroso nei labirinti dell'immaginario antico e arcaico, anche al di là delle remore e dei limiti posti alla phantasia dalle convenzioni illusorie dell'imitazione, verso le mitiche fonti della conoscenza, quando nell' eidolon la presenza reale si manifestava contemporaneamente come un'assenza irrimediabile. Credo che questi, appunto, siano i percorsi singolarmente intrapresi dai nostri quattro maestri.
La maestria plastica di Clizia ci guida ad apprendere la sapienza nella ricerca, attraverso volumi essenziali, di una gestualità rituale antica, condivisa dalle attitudini complessive dei corpi e delle forme e partecipata dalle procedure di intervento segnico e cromatico. Renzo Igne, invece, fa leva sull'ironia affiorante da un mondo incantato di eroi, finzioni, macchine mobili, per accedere ad un fantastico campionario di archetipi, dominato da inquietanti tensioni decostruttive. Vera Quaranta, per parte sua, punta diritta al rapporto con la terra, con le memorie suscitate dalla materia e dai pigmenti, entra nel cuore del mito di Atena, potnia e core, e reinventa, classifica ed aggiorna il repertorio archetipo, scavando e ricercando nell'archeologia dell'immaginario». Albino Reggiori, parallelamente, pone la maestria del segno, incessantemente scandagliata per trapassi e comparazioni tecniche, al servizio della memoria, cui compete l'arduo mestiere di inseguire e cogliere le misteriose tracce e i lirici affioramenti suscitati dalla luce e dal colore.
Pertanto, la singolarità di ciascuno, come strategia personale di controllo del processo inventivo e come individualità fantasticamente attenta a sorprendersi e a sorprenderci con la propria «fabbricazione» creatrice, consente tra queste opere di identificare percorsi fortemente distinti e nello stesso tempo sicuramente complementari.

Paolo Nesta