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Il
Mito di Athena
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Recensione di Paolo Nesta
Il mito di Athena Pallade
A-ta-na po-ti-ni-ja, divinità dei sovrani micenei, rinnova il proprio
ruolo di potnia, cioè di signora di Atene nell'età classica,
conservando l'antico attributo di coreparthenos e rafforzando, con la
nascita dal cranio di Zeus, le antiche prerogative tutelari e di autorità.
Il suo trionfo sulla polis, monumentalmente sanzionato con l'erezione
del Partenone sull'Acropoli, coincide con il grande patto che gli uomini, suoi
protetti e «concittadini», stipulano complessivamente con la dea
e con la nuova stirpe olimpica.Zeus acconsente a condividere con la figlia
l'egida, lo scudo che difende e insieme offende, strumento globale di potere,
che al centro reca l'immagine del capo della Gorgone, mostro infernale la cui
sconfitta e morte, come vogliono alcune narrazioni, spetta appunto ad Alena
e non a Perseo. Il suo trionfo sulle forze infernali, coerente con quello conseguito
sulle divinità ctonie dal nuovo Olimpo, governato da Giove, ripercorre
vittoriosamente e virtuosamente le vicende di confronto con le forze infere
- affrontato durante le vicende di mone e di rinascita nelle vesti della core
micenea - e «autorizza» la dea, nella memoria degli antichi riti
iniziatici, divenuta tutelatrice degli eroi, ad essere prodiga di doni agli
uomini, ad assumere la funzione di protettrice delle loro arti e a farsi garante
della pace e della prosperità della polis ateniese. La «sua»
proposta di contratto sociale, in qualche modo rousseauianamente ante luterani,
impegna gli antichi ateniesi in un progetto complessivo di ricostruzione e ridefinizione
della propria identità sociale e culturale, che coinvolge tutti gli aspetti
della interpretazione della realtà.
Grazie alla rinata certezza nel dominio (anche politico) della terra e ad un
più rassicurante rapporto con le forze sotterranee, entrambi garantiti
dall'egida di Pallade, gli ateniesi del v-iv secolo a.C. guardano agli eidola,
alle immagini prodotte dai pittori, dagli scultori e dai ceramisti, con intenzioni
e sguardi nuovi, tesi ad indagare tra le differenze di rapporto tra le parole
- e più in generale il discorso - e le cose nominate e a proposito della
relazione di sembianza che intercorre tra l'immagine e il suo modello e a distinguere
l'attività demiurgica dell'artigiano da quella «mimetica»
dell'artista. Il gioco dell'imitazione, il gioco del Medesimo e dell'Altro,
non si pone più, come accadeva al pensiero arcaico, nella dialettica
della presenza e dell'assenza, svolta nella dimensione dell'aldilà che
l'eidolon, in quanto doppio, comporta nel prodigio di un invisibile che per
un istante si fa vedere.
Ora il gioco giunge a circoscrivere, tra l'essere e il non essere, tra il vero
e il falso, lo spazio del fittizio e dell'illusorio, in cui si collocano i diversi
generi delle procedure «imitative». Eidola, eikones, phantasmata,
i frutti della phantasia immersa nel flusso del sensibile, rigorosamente opposto
da Fiatone all'intelletto, sono visti come i prodotti oggettivi di determinate
arti. Respinte e perdute le funzioni che il pensiero arcaico le riconosceva
come processo di conoscenza, via di accesso all'essere a partire dalle sue manifestazioni
visibili, l'immaginazione, la facoltà di produrre immagini, è
ancorata dall'uomo ateniese alla phantasia, che si configura come lo stato del
pensiero in cui si da il proprio assenso spontaneo all'apparenza che rivestono
le cose, alla forma in cui si danno a vedere. L'imerpretazione dell'immagine
proposta dalla teoria dell'imitazione» non è, tuttavia, che una
importante tappa dell'elaborazione di questa fondamentale categoria nel pensiero
occidentale lungo il cammino che la condurrà verso la moderna comprensione,
nella sua dimensione di fatto e di coscienza.
Solo la consapevolezza della distinzione tra sensazione ed immagine, infatti,
consente di reintegrare la categoria dell'agente, la nozione del potere creativo
dell'uomo, la sua piena libertà di azione nel campo dell'artificio, dell'invenzione,
dell'innovazione. E solo a queste condizioni è concesso all'artista contemporaneo
l'affascinante percorso a ritroso nei labirinti dell'immaginario antico e arcaico,
anche al di là delle remore e dei limiti posti alla phantasia
dalle convenzioni illusorie dell'imitazione, verso le mitiche fonti della conoscenza,
quando nell' eidolon la presenza reale si manifestava contemporaneamente
come un'assenza irrimediabile. Credo che questi, appunto, siano i percorsi singolarmente
intrapresi dai nostri quattro maestri.
La maestria plastica di Clizia ci guida ad apprendere la sapienza nella
ricerca, attraverso volumi essenziali, di una gestualità rituale antica,
condivisa dalle attitudini complessive dei corpi e delle forme e partecipata
dalle procedure di intervento segnico e cromatico. Renzo Igne, invece,
fa leva sull'ironia affiorante da un mondo incantato di eroi, finzioni, macchine
mobili, per accedere ad un fantastico campionario di archetipi, dominato da
inquietanti tensioni decostruttive. Vera Quaranta, per parte sua, punta
diritta al rapporto con la terra, con le memorie suscitate dalla materia e dai
pigmenti, entra nel cuore del mito di Atena, potnia e core, e reinventa,
classifica ed aggiorna il repertorio archetipo, scavando e ricercando nell'archeologia
dell'immaginario». Albino Reggiori, parallelamente, pone la maestria
del segno, incessantemente scandagliata per trapassi e comparazioni tecniche,
al servizio della memoria, cui compete l'arduo mestiere di inseguire e cogliere
le misteriose tracce e i lirici affioramenti suscitati dalla luce e dal colore.
Pertanto, la singolarità di ciascuno, come strategia personale di controllo
del processo inventivo e come individualità fantasticamente attenta a
sorprendersi e a sorprenderci con la propria «fabbricazione» creatrice,
consente tra queste opere di identificare percorsi fortemente distinti e nello
stesso tempo sicuramente complementari.
Paolo Nesta