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Catalogo
Il Mito di Gea
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1998
Recensione di Lucio Cabutti

In nome di Gea

Si sente ancora nominare dopo decine di secoli; e anche nel Terzo Millennio già vicmissimo il suo nome continuerà a sentirsi pronunciare come sedimento etimologico di un significato, che dalla risonanza cosmica del mito greco spazia fino ai linguaggi comuni o scientifici dell'attualità: Gea, o Gè oppure Gaia secondo altre formulazioni, rievoca una figura "fossile" e insieme vivente della terra investita di divinità ogni volta che si adopera, per esempio, la parola "geografia". E quando la titolazione di un dipinto si richiama alla mitica pensabilità di un'origine "terrestriale", il termine di riferimento suggerito risulta visibilmente impegnativo, per la molteplicità dei modelli etnologici ipotizzati come per la pregnanza simbolica delle loro
possibili riattivazioni. Nella versione più statisticamente desunta dal labirinto del pensiero mitico antico, Gea è la prima e primordiale forma divina emersa dal Caos, la Terra che genera poi il proprio personaggio complementare, Urano, ossia il Cielo, e che con lui genera quindi i Titani, i Ciclopi e gli Ecatónchiri giganti dalle cinquanta teste e cento braccia.
Una delle Titanesse, fra l'altro, ha molto a che vedere con le ani: Mnemósine, dea della memoria (e sorella di Crono, il Tempo, padre di Zeus) è infatti la madre delle nove Muse, figlie anche del proprio nipote Zeus. Ma Gea è inoltre madre di altri esseri avuti da Ponto e da Tartaro, padre del mostro Tifone dalle cento teste di drago, che a sua volta è padre (insieme alla sposa Echidna, per metà donna e per metà serpente, uccisa poi da Argo, il gigante dai cento occhi, omonimo di quell'Argo, figlio di Frisso e di Calciope, che costruì e diede il proprio nome alla nave degli Argonauti) di Cerbero, delle Arpie, della Chimera, della Sfinge e di ulteriori mostri mitologici. Affine al nome di Gea è quello di Geb, il dio-terra egiziano primordialmente unito alla dea-cielo Nut prima della loro separazione ad opera del dio-spazio-vuoto Shu: nel mito greco, invece, Gea (la Tellus Metter dei romani) è la dea, e il Cielo, Urano, è il dio, con un rovesciamento delle posizioni cosmogoniche rappresentative della complementarità creatnce dei ruoli. Il passaggio dall'indifferenziato al differenziarsi, il mutamento dall'indistinto al dialettizzarsi dei concetti mitici, la svolta dall'unità indefinita alla interazione dinamica generano un articolarsi di cognizioni che è anche un moltipllcarsi di immagini attraverso le affinità selettive della natura come dell'immaginario. Mnemósine ha molto a che vedere anche con le scienze, e le sue figlie, passate da tré a quattro e a nove, riguardano anche l'astronomia e la storia. Come Terra Madre, Gea per Eschilo ("Coefore") "partorisce tutti gli esseri, li nutre e ne riceve di nuovo il germe fecondo"; e per Esiodo ("Teogonia") partorisce gli dèi, che poi la imitano, imitati a loro volta dagli uomini e infine dagli animali: il repertorio mitico-rehgioso tradizionale viene da lui sistematizzato esplicitando nei nomi stessi il bipolarismo aperto alla divinizzazione come alla lettura dell'ambiente fisico, alla tensione archetipale come alla percezione cosmica, ali'estensione simbolica come al senso naturale dell'esistenza tra la vita e la morte. Anche solo questo rapido zapping nell'ipertesto di Gea, questa abbozzata navigazione nella rete dell'antropologia sacra e insieme profana, questo "volo" probabilistico nel labirinto della mitologia mediterranea, possono esemplificare la molteplicità ricca e contraddittona di dati a cui ci si intende riferire, virtualmente, quando i titoli dei quadri alludono in modo esplicito al nome di quella divinità della Terra. Guardare alla struttura mitica e insieme naturale di Gea (e fare di questa referenza il motivo avvincente e vincente di una interazione espositiva fra quattro esperienze pittoriche) non obbliga però, come è ovvio, a addentrarsi nella complessità intricatissima e problematica dell'argomento in questione. Il libero gioco interattivo fra il mito di Gea e le visioni artistiche contemporanee può innescarsi non meno emblematicamente come espansione prioritaria della visibilità oppure dell'immaginazione quotidiana sugli estremi echi mitologici, e quindi più come presa di distanze che come reimmersione "mitopoietica": come senso terrestre, planetario e diretto, dunque, lontano da mediazioni filologiche. Così Sara Carbone sceglie, ad esempio, la pianta, dalle radici alle fronde, come segno di vita che scaturisce dalle viscere azzurrate del prato: "Gli alberi", scriveva Rabindranath Tagore, "sono l'estremo sforzo della terra per parlare al cielo". Allegoria possibile di rapporti fra mondo ctonio e mondo uranico, l'immagine conserva peraltro la leggibilità immediata dell'evento naturale che predomina, del resto, in questo modo di guardare. E giustamente il nome di Gea viene posto fra parentesi dal trionfo della vegetazione. Lia Laterza mette in scena l'eruzione vulcanica che diventa "II furore di Gea" e anche, si potrebbe aggiungere, di un figlio di Gea e del Tartaro come Tifone o Tifeo, che avendo tentato di detronizzare Giove venne poi vinto dal dio supremo dell'Olimpo e sepolto vivo sotto l'Etna, da cui secondo Ovidio ("Metamorfosi") "feroce espelle terra dalla bocca e vomita fiamme": l'aureola di luce tipica di questa pittrice ne evidenzia magma e lapilli, mentre in altri acrilici, di Gea, vengono alla ribalta l'amore e i tesori. Egle Scroppo assembla per Gea un'immagine composita e brillante, dove un impianto araldico di ascendenza postcubista e di confluenza affabulatoria si infittisce di frammentari volti, presenze immaginali, animali di cielo e di terra, in un inesauribile cantico della creatività generatnce e trionfante. L'ordine geometrico della stilizzazione tempera l'apparente caoticità esplosiva della vita, e ne tempra la favolosa fantasmagoria scaturita dalla natura stessa della cultura iconologica: cosmo, in greco, significa ordine. Maria Luigia Vigant percorre m vane direzioni un repenono cosmico dove, fra terra e cielo, non c'è interruzione di continuità. Tutto fa pane di una natura, che anche nei confronti della pittura e dell'ambiente non conosce soluzione di continuità. Il quadro può diventare installazione in un linguaggio che di Gea, intesa come mito tellurico delle origini, serba lievi e appena disincantate memorie. Alla sua interazione con Gea si addice quindi un punto interrogativo, estensibile alla pittrice, "Gea" delle proprie opere. E questa ipotizzata traslazione di sensi dal mito "geomorfico" della natura primigenia al sito materico (e "materno") della pittura mediato dalla immagine mitizzata dell'anista può riguardare inoltre le altre pittrici che espongono insieme, e anche il significato stesso della loro mostra in cui, insieme, pariteticamente "si espongono": dove l'interazione fra i dipinti e il mito di Gea diventa simultaneamente, e più che mai, metafora di un mito remoto dell'ano sempre più lontano dai modelli di vita anefatta del presente. Sempre, ancora, "m nome di Gea".

Lucio Cabutti