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Catalogo

Il Mito di Artemide
pagina 2/10
1999
Recensione di Paolo Nesta

Artemide ricompare sulle rive della Dora

E dunque Artemide discese dall'Olimpo: aveva chiesto la castità al padre degli Dei, Giove, ma in più di un'occasione ebbe a pentirsene. Fece sbranare dai suoi stessi cani Atteone, non tanto perché le faceva una corte un po' troppo insistente, quanto perché il suo cuore di donna e di dea non era in sintonia con quello di lui, ma fu generosa con Alfeo - non le dispiaceva quel suo approccio costante, ma non aggressivo - e lo trasformò in fiume, in modo che quei suoi sentimenti potessero scorrere dai monti fino al mare. E il mar di Sicilia divenne un pozzo d'amore. Se pensiamo che la mitologia è una storia inventata
dagli uomini come proiezione dei loro desideri - anche i più malsani - dall'orto dell'impotenza all'Olimpo in cui tutto è lecito, certo, la figura di Artemide - vergine casta ci disturba un po', anche perché non è possibile confrontarla con una santa della cristianità. Artemide perciò è una dea, nel vero senso della parola, e qualsiasi riferimento ad una abitatrice di questa terra è arrischiato. La caccia è un rifugio, un'evasione dalle tentazioni del sesso, è prevalente la volontà di mantenere la propria verginità. La luna è sempre lassù nel cielo e riverbera la sua luce sui capelli di Artemide e da essi rimbalza fino alla fonte, come un lenzuolo, un corridoio lungo il quale è possibile volare senza inciampi.
Certo, gli artisti hanno piena libertà di interpretare la figura di Artemide, in fin dei conti rappresenta un mito dai mille volti e dalle mille espressioni, nasce non dalle onde del mare come Venere, ma da lidi misteriosi. Chi la segue nella caccia può anche correre il rischio di perdersi nei boschi, forse in isole felici. E trovarsi avvolti nel verde, invischiati nel labirinto, senza un filo di sole che ti indichi il sentiero per uscirne. Ma abbiamo proprio voglia di uscire dal labirinto? Il dubbio, l'incertezza, l'ignoranza rappresentano ne uno stato soave, ne felice, senza preoccupazioni, ma anche senza stimoli. Artemide, anche in questo dinire di millennio, rimane avvolta nei suoi veli.
Franz Clemente, Donatella Merlo, Luciano Proverbio, Luciano Spessot hanno tentato di sollevarli, mantenendo, per fortuna loro e nostra, la loro personalità. La pittura è un'espressione genuina degli uomini, come la mitologia, gli dèi, le dee e tutti i loro servitori. Ma, dipingendo, lo stato d'animo degli artisti non si può nascondere, la mitologia è un groviglio di desideri e di incubi dai quali è difficile districarsi. Altrimenti il mito non sarebbe tale, sarebbe soltanto una cronachetta di quartiere. E invece se ne sta sempre sulla vetta dell'Olimpo, salvo discendere all'imbocco della Valle di Susa (il Musine non è lontano) a richiesta de «Gli Argonauti», con l'ausilio di artisti pronti a rinnovarlo, a rinfrescarlo, a farlo correre nei viali del Parco della Certosa di Collegno o sull'asfalto della vicina autostrada. Scriveva Giacomo Prampolini {La mitologia nella vita dei popoli, Ulrico Hoepli, 1942, Milano): «Nell'arte, ove si prescinda dal tipo arcaico della "Orthia" e da quello orientale della "Efesia", Artemide è di regola rappresentata come una fanciulla agile e snella, in veste succinta e calzari, con arco, frecce e faretra, oppure in compagnia di un cane o di una cerva; talvolta, con la fiaccola che allude al carattere lunare».
Per Franz Clemente immergere la dea Artemide nei suoi paesaggi allusivi, in quell'atmosfera ambigua della collina che si smaterializza e della materia che si alleggerisce e quasi prende il volo, sulle ali dello spirito, è come, se non un gioco, un invito ad immaginare quale sia il rapporto tra l'universo degli uomini e l'Olimpo, il monte sul quale conversano e si affrontano e si riappacificano gli dèi: la sua Artemide e la dea della distanza, la dea inavvicinabile, una dea che considera gli uomini esseri inferiori, formiche od insetti di poco conto. Franz Clemente sorride - con i suoi colori delicati -. Sa che non è così, ma sa anche che l'Olimpo è stato creato dagli uomini, e come creatura umana deve essere accettato, nel bene e nel male. La poesia, in fin dei conti, rappresenta una parte rilevante della mitologia.
Per Donatella Merlo, Artemide è soffice, leggera, procede quasi a passo di danza, mostra con orgoglio la sua preda, un cucciolo di leopardo, e nella mano sinistra stringe un lungo ramo fiorito di petali rosa. Non è dunque la freccia, ed il bosco incantato dal quale sta uscendo è come un arcobaleno che si spezza, si suddivide in tante briciole di poesia (i colori sono l'azzurro, il verde acqua, il verde intenso, il violetto) in modo che ognuno, iddio o eroe o menale, ne possa ponare con sé una piccola pane. Artemide non riasconde la sua crudeltà, ma è come la donna; l'uomo, non rifugge dai sentimenti che hanno la loro fonte nel bosco dei misteri. La luna bianca, dall'alto, conversa con le betulle, con le loro cortecce chiare. Un po' di Olimpia non guasta, sulla nostra terra, dalla quale la poesia sembra sia stata mandata in esilio.
Luciano Proverbio ha dimestichezza con i personaggi dei Tarocchi, tant'è che vent'anni fa ha presentato una sua mostra con le figure dei «22 Arcani maggiori» ed i «66 Arcani minori». Scriveva Gabriele Mandel nella presentazione: «Da secoli l'umanità s'è affascinata di sogni, così che il proprio amore per l'irrealizzabile ha chiesto, di là dalle apparenze tangibili, il segno evidente dei sentimenti immateriali». La sua Artemide, tuttavia, non è ne la Papessa, ne l'Imperatrice, ne l'Amante, ne la Giustizia, ne la Temperanza, è una dea angosciata, e non sai se stia meditando qualche azione nella quale la sua mitologica crudeltà verrà in evidenza, oppure se l'abbia già compiuta. Oppure ancora, cosa che non si addice agli dèi, alle dee, se si sia pentita della sua crudeltà. Una goccia di luna si affaccia al di qua delle nuvole nere, ma non rischiara a sufficienza. Luciano Spessot vede Artemide con i suoi colori prevalenti, con la tunica azzurra, con qualche riflesso di violetto, con la consapevolezza che stanare la dea dai suoi boschi, dai luoghi della caccia, sia un sacrilegio. Eppure scultori e pittori dell'età classica l'hanno voluta su di un piedestallo, proprio per significare la sua regalità.
È vero, la cerva preferita l'accompagna, un seno sfugge dalla tunica come a rivendicare la propria femminilità, ma in questo momento non pensa alla caccia, mostra una classica serenità. E quei telai, quelle cornici, quei dipinti, hanno diritto di asilo nel quadro dedicato alla dea della caccia? «Sì, perché io sono soltanto l'ultimo dei mille anisti che, senza conoscerlo, hanno descritto, aiutandosi con l'immaginazione, il suo volto». Agli artisti il merito di aver creato le immagini dei protagonisti e della Mitologia e della Religione.


Aldo Spinardi