Catalogo
Artemide ricompare sulle rive
della Dora
E dunque Artemide discese dall'Olimpo: aveva chiesto la castità al
padre degli Dei, Giove, ma in più di un'occasione ebbe a pentirsene.
Fece sbranare dai suoi stessi cani Atteone, non tanto perché le faceva
una corte un po' troppo insistente, quanto perché il suo cuore di donna
e di dea non era in sintonia con quello di lui, ma fu generosa con Alfeo -
non le dispiaceva quel suo approccio costante, ma non aggressivo - e lo trasformò
in fiume, in modo che quei suoi sentimenti potessero scorrere dai monti fino
al mare. E il mar di Sicilia divenne un pozzo d'amore. Se pensiamo che la
mitologia è una storia inventata dagli uomini come proiezione
dei loro desideri - anche i più malsani - dall'orto dell'impotenza
all'Olimpo in cui tutto è lecito, certo, la figura di Artemide - vergine
casta ci disturba un po', anche perché non è possibile confrontarla
con una santa della cristianità. Artemide perciò è una
dea, nel vero senso della parola, e qualsiasi riferimento ad una abitatrice
di questa terra è arrischiato. La caccia è un rifugio, un'evasione
dalle tentazioni del sesso, è prevalente la volontà di mantenere
la propria verginità. La luna è sempre lassù nel cielo
e riverbera la sua luce sui capelli di Artemide e da essi rimbalza fino alla
fonte, come un lenzuolo, un corridoio lungo il quale è possibile volare
senza inciampi.
Certo, gli artisti hanno piena libertà di interpretare la figura di
Artemide, in fin dei conti rappresenta un mito dai mille volti e dalle mille
espressioni, nasce non dalle onde del mare come Venere, ma da lidi misteriosi.
Chi la segue nella caccia può anche correre il rischio di perdersi
nei boschi, forse in isole felici. E trovarsi avvolti nel verde, invischiati
nel labirinto, senza un filo di sole che ti indichi il sentiero per uscirne.
Ma abbiamo proprio voglia di uscire dal labirinto? Il dubbio, l'incertezza,
l'ignoranza rappresentano ne uno stato soave, ne felice, senza preoccupazioni,
ma anche senza stimoli. Artemide, anche in questo dinire di millennio, rimane
avvolta nei suoi veli.
Franz Clemente, Donatella Merlo, Luciano Proverbio, Luciano Spessot
hanno tentato di sollevarli, mantenendo, per fortuna loro e nostra, la loro
personalità. La pittura è un'espressione genuina degli uomini,
come la mitologia, gli dèi, le dee e tutti i loro servitori. Ma, dipingendo,
lo stato d'animo degli artisti non si può nascondere, la mitologia
è un groviglio di desideri e di incubi dai quali è difficile
districarsi. Altrimenti il mito non sarebbe tale, sarebbe soltanto una cronachetta
di quartiere. E invece se ne sta sempre sulla vetta dell'Olimpo, salvo discendere
all'imbocco della Valle di Susa (il Musine non è lontano) a richiesta
de «Gli Argonauti», con l'ausilio di artisti pronti a rinnovarlo,
a rinfrescarlo, a farlo correre nei viali del Parco della Certosa di Collegno
o sull'asfalto della vicina autostrada. Scriveva Giacomo Prampolini {La mitologia
nella vita dei popoli, Ulrico Hoepli, 1942, Milano): «Nell'arte, ove
si prescinda dal tipo arcaico della "Orthia" e da quello orientale
della "Efesia", Artemide è di regola rappresentata come una
fanciulla agile e snella, in veste succinta e calzari, con arco, frecce e
faretra, oppure in compagnia di un cane o di una cerva; talvolta, con la fiaccola
che allude al carattere lunare».
Per Franz Clemente immergere la dea Artemide nei suoi paesaggi allusivi,
in quell'atmosfera ambigua della collina che si smaterializza e della materia
che si alleggerisce e quasi prende il volo, sulle ali dello spirito, è
come, se non un gioco, un invito ad immaginare quale sia il rapporto tra l'universo
degli uomini e l'Olimpo, il monte sul quale conversano e si affrontano e si
riappacificano gli dèi: la sua Artemide e la dea della distanza, la
dea inavvicinabile, una dea che considera gli uomini esseri inferiori, formiche
od insetti di poco conto. Franz Clemente sorride - con i suoi colori delicati
-. Sa che non è così, ma sa anche che l'Olimpo è stato
creato dagli uomini, e come creatura umana deve essere accettato, nel bene
e nel male. La poesia, in fin dei conti, rappresenta una parte rilevante della
mitologia.
Per Donatella Merlo, Artemide è soffice, leggera, procede quasi
a passo di danza, mostra con orgoglio la sua preda, un cucciolo di leopardo,
e nella mano sinistra stringe un lungo ramo fiorito di petali rosa. Non è
dunque la freccia, ed il bosco incantato dal quale sta uscendo è come
un arcobaleno che si spezza, si suddivide in tante briciole di poesia (i colori
sono l'azzurro, il verde acqua, il verde intenso, il violetto) in modo che
ognuno, iddio o eroe o menale, ne possa ponare con sé una piccola pane.
Artemide non riasconde la sua crudeltà, ma è come la donna;
l'uomo, non rifugge dai sentimenti che hanno la loro fonte nel bosco dei misteri.
La luna bianca, dall'alto, conversa con le betulle, con le loro cortecce chiare.
Un po' di Olimpia non guasta, sulla nostra terra, dalla quale la poesia sembra
sia stata mandata in esilio.
Luciano Proverbio ha dimestichezza con i personaggi dei Tarocchi, tant'è
che vent'anni fa ha presentato una sua mostra con le figure dei «22
Arcani maggiori» ed i «66 Arcani minori». Scriveva Gabriele
Mandel nella presentazione: «Da secoli l'umanità s'è affascinata
di sogni, così che il proprio amore per l'irrealizzabile ha chiesto,
di là dalle apparenze tangibili, il segno evidente dei sentimenti immateriali».
La sua Artemide, tuttavia, non è ne la Papessa, ne l'Imperatrice, ne
l'Amante, ne la Giustizia, ne la Temperanza, è una dea angosciata,
e non sai se stia meditando qualche azione nella quale la sua mitologica crudeltà
verrà in evidenza, oppure se l'abbia già compiuta. Oppure ancora,
cosa che non si addice agli dèi, alle dee, se si sia pentita della
sua crudeltà. Una goccia di luna si affaccia al di qua delle nuvole
nere, ma non rischiara a sufficienza. Luciano Spessot vede Artemide
con i suoi colori prevalenti, con la tunica azzurra, con qualche riflesso
di violetto, con la consapevolezza che stanare la dea dai suoi boschi, dai
luoghi della caccia, sia un sacrilegio. Eppure scultori e pittori dell'età
classica l'hanno voluta su di un piedestallo, proprio per significare la sua
regalità.
È vero, la cerva preferita l'accompagna, un seno sfugge dalla tunica
come a rivendicare la propria femminilità, ma in questo momento non
pensa alla caccia, mostra una classica serenità. E quei telai, quelle
cornici, quei dipinti, hanno diritto di asilo nel quadro dedicato alla dea
della caccia? «Sì, perché io sono soltanto l'ultimo dei
mille anisti che, senza conoscerlo, hanno descritto, aiutandosi con l'immaginazione,
il suo volto». Agli artisti il merito di aver creato le immagini dei
protagonisti e della Mitologia e della Religione.
Aldo Spinardi