Il
Mito di Eracle
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Recensione di MANUELA CUSINO
In nome di Eracle
Questa mostra rende un doveroso e commosso omaggio a Nicola Mileti,
amico e grande esperto nell'arte ceramica. Grazie al suo alacre impegno e alla
ferma convinzione che la Ceramica d'Arte rappresenti accanto a quella dell'artigianato
artistico una realtà necessaria ed insostituibile nei suoi esempi nazionali
ed internazionali per fare della cittadina di Castellamonte e della regione
Piemonte, un luogo privilegiato ed indiscusso della ricerca e fruizione estetica
contemporanea, oggi, noi tutti, artisti, critici ed operatori del settore, possiamo
con sicurezza continuare sulla strada nata più di quarant 'anni fa, facendo,
sull'esempio dell'antico mito di Eracle della fatica e della perseveranza, due
fedeli compagne.Tra i più popolari eroi greci troviamo sicuramente
la figura di Eracle, oggetto di un gran numero di miti e leggende. Anche se
nel corso dei tempi l'iconografia pittorica di questo eroe prevale su quella
statuaria, è significativo che un gruppo di artisti ceramisti si sia
voluto confrontare con questo tema, ora individuandone radici mitologiche simbolicamente
contemporanee, ora delineandone caratteristiche concettualmente riscrivibili
nel proprio iter poetico-creativo. Per Sandra Baruzzi la ricerca coincide
con una sperimentazione variegata, per uso di attributi e scelta di materiali
e tecniche: il racconto ruota intorno alla prima fatica di Eracle con l'uccisione
del leone-mostro di Nemea. Citazioni urbane sul fondo, secondo lo stilema tipico
dell'artista, ovvero piccole finestre-aperture rettangolari, offrono lo spunto
al momento in cui Eracle riporta il leone a Micene ed Euristeo, spaventato dalla
forza dell'eroe, gli vieta di entrare in città obbligandolo deporre di
fronte alle porte dell'urbis, il bottino.La città e le strette scale
d'accesso alle case con porte e ponti intrecciantesi in un dedalo continuo di
comunicazioni interne-esterne, sono per Sandra metafora dei rapporti umani,
delle verità che spesso indaffarati nel continuo flusso della vita, non
riusciamo ad indagare. Anche la luna, altro leitmotiv, accanto questa volta
alla colomba, traccia in un percorso idealmente parabolico il ponte tra tradizione
e contemporaneità, richiamando al cuore, prima che alla mente, quanto
la lotta del tempo passato possa aprire le porte alla pace. Le scelte iconografiche
mescolano temi personali e mitici, grazie a risoluzioni ora giocate su tonalità
calde, ora risolte in un bianco e nero pennellato, icastico nel segno delle
sagome, quasi incise sulla superficie. La terra è colore, la sua macina
diventa segno pittorico pur nulla rinunciando della sua antica natura argillosa.
All'undicesima fatica, quella legata ai pomi d'oro delle Esperidi e ai miti
che vi si intrecciano, quale quello della lotta tra Eracle ed Anteo, si riferisce
l'indagine simbolico-architettonica del lavoro in grès con ossidi di
cobalto su refrattario chiaro di Marilena Bergamini.
Durante il suo passaggio in Libia l'eroe lottò contro Anteo, figlio di
Gea, riuscendo a staccarlo dal suolo da cui continuamente riceveva forza ed
è proprio questo intimo rapporto tra Anteo e Gea, la terra, che l'artista
indaga attraverso un gioco di relazioni dinamico-costruttive, in cui anche il
trattamento diverso delle superfici sottolinea la carica potenziale di ognuna
delle figure oniriche. Parabole, volte a crociera, tensioni architettoniche
costituiscono il linguaggio essenziale ed austero di quest'artista. La sua ricerca
è per le forme pure, sospese tra rigidità e morbidezza, tra piani
continui ed improvvisi tagli delle superfici, nella convinzione che proprio
il filo sottile che separa la forma dal colore sia l'anima della scultura ceramica.
La materia si trasforma quasi pellicolarmente in forme ora aperte, ora raccolte.
Lamellari le fessure, i tagli della superficie, quasi trasalimenti emotivi del
corpo caldo della terra. Sono una donna di fiume; le mie radici fanno di me
un architetto di forme pure. il colore non e mai espressione di virtuosismo
pittorico ma completamento dell'impasto, forma destinata ad esaltare l'importanza
del piano su cui si muove. All'idea di un Èrcole quale modello dell'uomo
mosso dal bisogno di superare se stesso in una continua lotta, fisica e mentale,
si ispira il Big-Bang di Elisa Bona, in terra -grezza, argilla refrattaria
affumicata naturalmente. La tensione è chiara in quella citazione corporea,
la mano, che è poi la sigla di molti dei lavori di Elisa, in cui para
monche del corpo valgono simbolicamente quale idea di ferocia, sopruso o violenza
subita, magari proprio dopo un combattimento. Corpi contenitori, corpi che inglobano,
o implodono, gabbie di parti per il tutto. L'idea della scultura quale canale
di comunicazione di cose non dette, di pensieri a frammenti poi ricomposti in
un sottile gioco ironico come nel caso dell'allestimento da macelleria, in cui
i pensieri, da digerire o digeriti nel loro apparente non senso, hanno preso
il posto di carni o salami da masticare e di cui è possibile cibarsi.
Anche la valigia musicante richiama alla mente la figura di Eracle quale cavaliere
errante alla ricerca di sé e del fato. L'immaginario delle paure umane
è sottilmente restituito dall'artista attraverso il gioco ironico delle
figure animali, come nel caso del lupo ad ingobbio nero che con i suoi dentacci
ci sorride! Alla decima fatica, quella della cattura della mandria di Gerione
e alle colonne d'Ercole si ispira la scultura architettonica su base nera di
Luca Tripaldi. Durante il ritorno d'Eracle in Grecia con la sua mandria
avvenne la maggior parte delle imprese che gli sono attribuite nell'Occidente
mediterraneo.
Nel viaggio d'andata, dopo aver liberato la Libia da un gran numero di mostri,
l'eroe eresse in ricordo del suo passaggio a Tartasso due colonne proprio nello
stretto che separa la Libia dall'Europa (la Rocca di Gibilterra e quella di
Ceuta).
Per Luca Tripaldi il racconto diventa un elogio alla bellezza essenziale, all'armonia.
Pulizia e precisione, in altre parole la tecnica (teckne), sono valori assoluti.
Dalla giustapposizione di forme pure, ora piani appena solcati da tagli o righe,
ora forme naturali, accoglienti, come nel caso delle ciotole, nasce la tensione
tra verticali ed orizzontali, tra piani architettonici e spazio totale. Anche
il trattamento dei materiali, dalle argille refrattarie con effetti acquerellati,
alle terre sigillate di stupefacente lucentezza, induce a riflettere sulla quasi
maniacale precisione di Luca Tripaldi. La calma e l'armonia delle forme più
semplici rimandano alla cultura giapponese e ad un maestro dell'architettura:
Tadao Hando. Di formazione europea ed italica Luca Tripaldi ama la ceramica
come strumento di ricerca spaziale ottenendo soprattutto nell'ultima produzione
una superba sintesi concettuale-minimalista.
Manuela Cusino